sabato 20 aprile 2013

La carica dei 101


La bocciatura di Prodi al Quirinale è costata cara al segretario del Pd: Bersani ha dimostrato di non avere il controllo del partito. 
Eppure, da quando è stato fondato il PDS, non ricordo un solo segretario che avesse il “controllo” del partito, nel senso di un consenso unitario a un progetto politico unitario. Dunque non è questo l’errore principale che gli attribuisco. E vorrei fare un distinzione.
La gestione delle trattative per la formazione di un governo è stata, a mio avviso, per lo meno ballerina. Lo dimostra l'ormai celebre lettera a Repubblica, pubblicata qualche giorno fa, in cui Bersani sfoggiava una scarsa lucidità politica: "Ci vuole un governo, certamente. Ma un governo che possa agire univocamente, che possa rischiare qualcosa (...). Non un governo che viva di equilibrismi, di precarie composizioni di forze contrastanti, di un cabotaggio giocato solo nel circuito politico-mediatico".
Venendo invece alla "partita del QUirinale", la candidatura di Marini lasciava intravedere un minimo di senso, con buona pace di chi ha gridato all’inciucio: l’ex segretario della Cisl, infatti, era ed è tuttora gradito al centrodestra, con il quale il Pd deve necessariamente confrontarsi, almeno per l’elezione del capo dello stato. Con il “peso” politico che Pd, Pdl e M5S hanno in Parlamento, nessuno (tanto meno Bersani) può avanzare particolari diritti di investitura. Questo è un dettaglio che bisognerebbe spiegare proprio a chi ha gridato all’inciucio: il Presidente della Repubblica va eletto, non si può "tornare al voto", posto che tornare al voto per la formazione di un nuovo Parlamento sia cosa degna in democrazia. Dunque, bisognava tentare la strada della condivisione. 
Non conosco gli altri nomi presenti nella rosa dei papabili “offerta” a Berlusconi: Marini forse non era il candidato "ideale", ma era senza dubbio un candidato necessario. Quando si è trattato di votare per eleggerlo, però, i renziani hanno posto il veto. La domanda che mi pongo è la seguente: Marini è saltato perché ai renziani non piaceva lui o perché i renziani non accettavano la cosiddetta figura di “consenso trasversale”? In quest'ultimo caso si poteva (doveva?) intuire che qualcuno, all’interno del partito, si muovesse non per l’interesse del paese ma per far saltare la segreteria. E Bersani avrebbe dovuto dimettersi allora, prima del quarto scrutinio e non dopo.
Veniamo a ieri pomeriggio. La candidatura di Prodi era improponibile, perché sgradita al Pdl e persino al M5S. La scelta dell’ex Presidente del Consiglio rappresentava infatti un’inammissibile forzatura “identitaria”, oltre che un atto di grave incoerenza strategica con le operazioni condotte il giorno precedente. Con questo errore si interrompe la catena dei passi falsi compiuti da Bersani in questi cinquanta giorni di stallo dopo il risultato delle urne.
Paradossalmente la carica dei 101 franchi tiratori ha evitato che prevalesse l’opzione dell’arrocammento: un’opzione debole e infruttuosa. Per il paese, prima che per il partito. Da ieri sera in avanti, però, la responsabilità del fallimento andrà per lo meno condivisa con chi, non votando Marini, ha voluto sacrificare il bene del paese nel nome dei giochi di potere interni al partito. Con chi ha voluto a tutti costi far saltare la segreteria. Queste persone dovranno dare conto delle proprie scelte quando si arriverà, presto o tardi, all’elezione del Presidente della Repubblica. Soltanto la convergenza su Rodotà salverà i renziani e, più in generale, l’opposizione a Bersani all’interno del partito. Chi ha remato contro, infatti, dirà che si doveva semplicemente cambiare alleato. In caso contrario, farà meglio a tacere.

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