giovedì 28 febbraio 2013

Negozi imbarazzanti: il ferramenta (3)

Ora, per fortuna, non ho più il mio “ferramenta” di fiducia (la fiducia che lui riponeva in me per i suoi guadagni). Parlo del negozietto che stava a un tiro di trapano, nel quartiere in cui ho abitato fino all’estate di due anni fa. Le mie visite erano frequenti, compulsive. Quando non sapevo che fare, andavo lì, a vedere la vetrina: dovevo forzarmi a non entrare, perché in un piccolo esercizio commerciale non si entra se non per comprare. Il titolare è un uomo sulla sessantina, piuttosto gentile e affabile. Ricordo coltissime disquisizioni sui rischi di calo del segnale dell’antenna. Ricordo declamazioni eruditissime sui vantaggi della colla a caldo rispetto a quella a freddo. Soprattutto sulle pareti a buccia d’arancia. Quell’uomo era per me un maestro: mi sarei arruolato per lui. Spesso e volentieri, però, al bancone ci trovavo una ragazza, tutt’altro che simpatica. È stata lei, sacerdotessa inviolabile di quel sapere da casta, in completo disaccordo con la visione illuministica del mestiere che aveva il titolare, a far sì che io nel tempo riducessi al minimo le mie visite al negozio. È merito suo, in definitiva, se alla fine sono uscito dal giro. Ogni volta che aprivo la porta in anticorodal grigio e c’era lei, uno sguardo schifato si posava su di me e le irrigidiva la postura. Ho provato spesso a immaginare cosa dicesse a se stessa vedendomi entrare: “Cosa diamine non sa aggiustare, stavolta?”. Ma non è tutto. Questa donna, probabilmente abituata a trattare clienti esperti, coi quali il colloquio si limitava, per volontà bilaterale, alla resa dell’oggetto desiderato e alla liquidazione del compenso dovuto, ha sempre lesinato le parole di cortesia. “Buongiorno” per lei era la catena consonantica “B-G-N”; lei non diceva, che ne so, “sono nove euro e venti, grazie!”: lei ti guardava impaziente, convinta che tu avessi a tua volta guardato il display della cassa e avessi già pronta la banconota da dieci e i venti centesimi per il resto. È capitato che, avendola riconosciuta, io sia uscito dal negozio e sia tornato a casa a imparare a memoria, su internet, i nomi degli oggetti che mi serviva comprare. Utilizzando motori di ricerca per immagini, s’intende. "Mi servirebbe quel pirulino a T, che permette di trasformare, cioè di inserire la presa nella spina, anzi volevo dire la spina nella presa, mi scusi, con il filo rivolto verso il basso, parallelo alla parete, per evitare che sporga troppo, perché se no non riesco a metterci davanti un mobile” questo è stato il discorso che, a buona ragione, l’ha allontanata per sempre da me. La Caporetto della retorica del ciappinaro. Una disfatta della coscienza, come darle torto. Finì che con lei, se c’erano due prodotti a mio giudizio equivalenti, sceglievo facendo a tocco, o comprando il più costoso, convinto che sarebbe stato per forza migliore. Non le ho mai più chiesto un consiglio o, tantomeno, una soluzione. Ci congedammo per sempre con l’acquisto del mio ultimo stendino, quello senza ali: terreno sul quale non le avrei dato noia, perché mi sentivo in una botte di ferro. Anzi, di alluminio plastificato. 

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