Soddisfazione di bisogni non
necessari, dicevo. Che dovrebbero rendere più facile la tua vita (in effetti
spesso lo fanno), ma che allo stesso tempo provocano la “sindrome del guanto”. Si
tratta di una particolare turba psichica, che ti spinge a credere
che ogni cosa debba essere rivestita e custodita in un contenitore. Negli anni
ho comprato di tutto: il porta-sacchetti, il porta-sapone per i piatti, il
porta-spugna per i piatti da appiccicare alle piastrelle (che puntualmente
viene giù lasciando residui di silicone dappertutto). Per non parlare degli
utensili da cucina: il trita-formaggio a pile o a manovella (che produce
pallotte, non polvere di parmigiano); l’affetta-verdure con lame diferrenziate (diffidate
da questo aggeggio: vi rimarrà sempre un quarto di zucchina da affettare col
coltello, se non volete perdere le falangi); il raccogli-briciole manuale che, più che raccogliere briciole, le sposta. Per non parlare dei recipienti da
sale, zucchero e caffè, fatti apposta perché ti rimanga un po’ di sale,
zucchero o caffè nella confezione che hai acquistato. Questi sono solo alcuni
dei più probabili incidenti di percorso in cui si imbatte chi si ritrova d’un
tratto a vivere da solo. Tuttavia, la macchina più perversa che sia mai passata
dalle mie mani resta quella: l’asciuga-insalata. Una minilavatrice in cui
dovresti prima sciacquare e poi centrifugare l’insalata, come se a servirla in
tavola spruzzata d’olio, d’aceto e anche di un po’ d’acqua si commettesse
chissà quale gravissimo sacrilegio. Quando ero arrivato quasi al punto di guarire
dalla “sindrome del guanto”, sono passato, senza volerlo, dalla padella alla
brace, ovvero dal ferramentismo nomade al ferramentismo sedentario: ho detto
basta alle giornate perse a ridosso della tangenziale, per capannoni enormi,
freddi e anonimi. Ma ho trovato un piccolo negozio di ferramenta vicino casa. Anzi
è lui che ha trovato me. Ed è diventato il mio piccolo santuario quotidiano.
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