lunedì 18 febbraio 2013

Negozi imbarazzanti: il ferramenta (1)


Mio padre mi mandava ogni tanto a comprare qualcosa “alla ferramenta” vicino casa. Ero piccolo e impacciato, e lui, per non sbagliare (e per salvarmi dall’imbarazzo che avrebbe annullato il valore formativo dell'esperienza) mi metteva in una mano il pezzo che gli serviva e nell’altra una banconota da cinquemila: «Vai e fatti dare ‘questo’». Io arrivavo al negozio, aspettavo che il titolare si manifestasse dal retrobottega e, dopo la sua epifania, mi alzavo sulle punte dei piedi (il bancone, oltre che logoro e antiestetico, era ovviamente anche molto più alto di me ) e gli mostravo il contenuto che custodivo nell’una e nell’altra mano. Quindi portavo a casa la mia conquista silenziosa: viti, dadi, chiodi, fili, tutte cose minuscole, incartocciate nelle pagine lucide dei settimanali; avrei potuto facilmente perderle per strada, ma non me le facevo scappare dalle tasche. 
Bei tempi, quelli: il titolare conosceva mio padre e mi trattava con benevolenza. 
Poi, con l’iscrizione all’università, quando ho abbandonato il collegio per trasferirmi in un appartamento, tutto è irrimediabilmente cambiato: ho iniziato da subito una lunga serie di pellegrinaggi per mesticherie, grandi magazzini del fai da te, industria pesante dell’acciaio. Tutto alla ricerca di pezzi da montare in altri pezzi al posto di pezzi inutilizzabili. In un appartamento c’è sempre bisogno (e se non c’è te lo fai venire) di “ferramenta”. Ne sono certo: quando i titolari di questi negozi inizieranno a investire sull'estetica dei banconi; quando daranno un po’ di luce alle pareti dei loro locali; quando sceglieranno una melodia più accattivante per il campanello che li avvisa dell’ingresso di un cliente… essi conquisteranno il mondo a colpi di trapano. Già, perché per il momento conducono ancora un’esistenza eremitica, sdegnosa delle lusinghe mondane, dedita alla conservazione e trasmissione di quel sapere sacrotecnico custodito in misteriosi annali. 

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