domenica 20 gennaio 2013

L'importanza degli avverbi di tempo

«Dio mio, ma con chi si identifica un autore? Con gli avverbi, è ovvio». Così Umberto Eco nella postfazione alla settima edizione de Il nome della rosa. Bistrattati a scuola, dove si studiano, quando si arriva a studiarli, alla fine della fine del programma di morfologia  (sono secondi, per infamia, solo alle interiezioni); trattati con eccessiva sufficienza nel linguaggio di tutti i giorni, in cui funzionano troppo spesso da intercalare, gli avverbi ci dicono, al minimo, dove e quando avviene ciò di cui parliamo. In realtà, essi rappresentano a tutti gli effetti lo scarto esistente tra il dire e il condire.
Ce ne sono però alcuni davvero antipatici: per mettere subito le cose in chiaro, su questo blog è  inderogabilmente messo al bando l'avverbio “praticamente”. Questa avversione risale ai tempi del liceo: il mio docente di lettere non tollerava che si usasse questa parola, del tutto inadatta, a suo avviso, ad ogni discussione letteraria. Nel tempo ho fatto mia la sua repulsione, sforzandomi di cercare soluzioni espressive alternative, più consone, quando mi addentro in questioni per così dire “poco fisiche”: in effetti e in poche parole hanno finora dato ottimi risultati. Sarà invece caldamente incoraggiato l’uso degli avverbi di tempo: le idee cambiano e la parole sono spesso costrette a inseguirle.

3 commenti:

  1. La vera aberrazione è che in effetti è praticamente sinonimo di sostanzialmente.

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  2. Sono disposto a provare a ridurre al minimo l'uso del "praticamente" a patto che tu sostenga la battaglia di un mio amico contro il "piuttosto che" usato come copula! :-)

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    1. Attenzione: io non voglio bandire l'avverbio "praticamente" dal mio vocabolario. Anzi, lo uso spesso e con gusto. Voglio che non passi da qui.

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